Il dibattito sul testamento biologico e sull’eutanasia potrebbe essere di una linearità disarmante.
Non è, infatti, concettualmente molto diverso dal decidere dove andare a vivere, quale mestiere intraprendere, se sfidare o meno l’oceano in una traversata in solitario, senza nessuno scopo pratico, senza la speranza di scoprire nuovi mondi.
Non è diverso perché queste ultime, come le prime, sono scelte che attengono alla sfera personale di ciascun individuo. La “sfera personale” è quella consacrata nella “Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino” del 1789 laddove viene detto che “La libertà consiste nel poter fare tutto ciò che non nuoce agli altri; l’esercizio dei diritti naturali di ciascun uomo ha come limiti solo quelli che assicurano agli altri membri della società il godimento di questi stessi diritti”.
Decidere, quindi, per se stessi di accettare o meno determinate cure, decidere o meno se porre fine ad una vita (la propria vita) che, in piena autonomia, si ritiene insoddisfacente, rientra, in quanto non contraddicente quanto sopra detto, pienamente nella libertà di scelta personale di ciascuno di noi.
Perché, dunque, tanto parlarne? Il motivo è nel fatto che alcune persone pretendono di imporre le scelte che loro farebbero per se stesse (sarà poi proprio vero?) anche agli altri. Di fatto questo contraddice la Dichiarazione.
Tutte le leggi dell’uomo possono essere messe in discussione per cui non mi scandalizzo neanche per questo. Ma le motivazioni che vengono proposte, quando si riesce ad andare al nocciolo della questione, attengono a sfere che nulla hanno a che vedere con la vita su questo pianeta come lo conosciamo: “La vita è un dono”, “La vita è un bene indisponibile”. Queste affermazioni sono pienamente lecite se rivolte a se stessi o a coloro di cui si è il punto di riferimento. Ma assistiamo, invece, ad una ingerenza di queste posizioni che pretendono di imporre quella visione come da condividere “obbligatoriamente”, trasformando l’indisponibilità della vita (concetto che appartiene solo ai credenti) in un concetto universale e che anche un ateo dovrebbe subire. Si tratta di una posizione semplicemente violenta e pertanto inaccettabile!
Noi “altri”, atei o agnostici o diversamente credenti che siamo, abbiamo diritto a vedere le nostre posizioni riconosciute dallo Stato e difese contro l’ingerenza di questi oppressori della libertà altrui.
Noi abbiamo la nostra dignità e la rivendichiamo alla pari, ripeto “alla pari”, di qualunque altro.
Non siamo “quelli della morte”, ma siamo quelli della libertà di scelta.
James Rachel ne “La fine della vita” scriveva che “essere vivi” ed “avere una vita da vivere” sono cose ben diverse. Siamo quelli che ritengono che la vita (a maggior ragione perché crediamo solo in questa) debba essere difesa e sostenuta e debbano essere rimossi quegli ostacoli che possano renderla difficile. Ma con Umberto Veronesi diciamo “Se la morte è il termine naturale della vita umana, di fronte alla nuova possibilità di allontanare questo confine, chi decide dove porre il limite e a quali condizioni farlo? La tecnologia stessa? I medici? In realtà noi pensiamo che nessuno debba decidere per noi. […] Il principio di autodeterminazione è l’unico che garantisce il rispetto della globalità della persona, del corpo, della mente e della loro armonia, anche quando questa si spezza e ci si trova nella condizione di massima debolezza, come avviene durante una grave malattia. È in gioco la dignità del morire […]”. E la dignità del morire, come quella del vivere, è un concetto personale che ognuno deve poter interpretare come meglio crede così come per Indro Montanelli, “… dignità è anche […] l’abilitazione a frequentare da solo la stanza da bagno”.
Sappiamo, poi, che nella pratica, l’interruzione delle cure, così come anche l’eutanasia, è praticata tutti i giorni ed i medici che lo fanno non operano come criminali, ma con la “pìetas” di un medici/uomini che vivono la tragedia ed il dolore fisico e morale della vita di tutti i giorni.
Lo stesso Montanelli diceva “Noi non pretendiamo che lo Stato riconosca i nostri principi, noi ci accontentiamo che non li perseguiti in pratica”.
Ma a noi non basta, così come non ci basta depositare nelle mani di un notaio un documento non riconosciuto dallo Stato. Noi vogliamo che l’istituzione di un Registro delle “Dichiarazioni anticipate di trattamento di fine vita” sia un atto politico con il quale si riconosca alle singole persone l’autorità esclusiva su se stessi. Quello che è in discussione al Parlamento è un atto vessatorio del legislatore che, diciamo insieme a Gianna Milano nel suo libro “Storia di una morte opportuna”, “[…] s’impadronisce della vita, che arbitrariamente definisce quali siano le terapie alle quali si può rinunciare, che subordina la volontà liberamente espressa dalla persona ad una insindacabile valutazione del medico, così negando valore vincolante alle decisioni contenute nel testamento biologico”.
Antonio D'Eramo - Coordinatore UAAR (Unione degli Atei e degli Agnostici Razionalisti) della Provincia di Varese
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